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Alfabeto familiare: G come come Generazione

di don Roberto Carrelli SDB

Come le lettere F e G dell’alfabeto sono vicinissime, così nominare la realtà della famiglia è evocare il fatto della generazione! E questo in bene e in male. Negare la famiglia è presto o tardi rinnegare la generazione, riconoscere la famiglia è senz’altro promuovere la generazione. E come l’unità degli sposi propizia nei figli un’identità solida, così la loro discordia produce tante forme di instabilità. Ad ogni modo, è triste vedere che laddove la famiglia perde i suoi contorni naturali e i suoi riferimenti religiosi, ai bambini succede di tutto: infanzia vezzeggiata, infanzia violata, infanzia negata.

L’amore e la sua fecondità

Lo abbiamo visto: come Dio è mistero di Amore e Vita, così la famiglia, fatta a immagine e somiglianza di Dio, è il luogo primordiale dell’amore e della vita. Amore e vita intesi non come due realtà separate, ma compenetrate: l’amore è la sorgente della vita, la vita è il frutto dell’amore. È un’osservazione più importante di quanto si creda, anche se distante dalla cultura divorzistica e contraccettiva in cui siamo immersi, e tuttavia bisogna dirlo: non esiste l’amore e la fecondità, esiste l’amore e la sua fecondità, esiste la fecondità dell’amore!

In fondo, ci sarà pure un motivo per cui Dio ha posto nell’atto generativo un piacere così intenso, e nella nascita dei bambini una tenerezza così grande!
Sì, il motivo c’è, ed è meraviglioso. Non ci si pensa abbastanza,ma se la prima parola del Credo è la paternità di Dio, la seconda è l’eterna generazione del Figlio!
Sì, in Dio stesso c’è la generazione, un’infinita e felice trasmissione di amore e di vita. Ed ecco il riverbero sulla creazione: l’atto creativo non sarà soltanto produzione di una realtà distinta da Dio, ma la germinazione di una realtà filiale.

In parole povere, siamo figli dell’uomo perché destinati ad essere figli di Dio!
In Gesù Dio “ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi” (Ef 1,5), e Dio ci ha colmati dei beni preziosissimi della creazione e della religione non solo per strapparci dalla corruzione del mondo, ma soprattutto “per renderci partecipi della natura divina” (2Pt 1,5). Ecco il cuore del disegno divino: renderci figli nel Figlio.

Bambini o figli?

Come è prevedibile, il Nemico cercherà in ogni modo di scarabocchiare il meraviglioso disegno di Dio, di sfigurare la figura filiale dell’uomo.
Fra i tanti sintomi della nostra “cultura di morte” vale la pena richiamarne uno, in quanto meno evidente rispetto alla tragedia dell’aborto e della violenza sui bambini, della denatalità e della natalità artificiale. Come M. Gauchet ha osservato, oggi ci sono molti bambini, ma pochi figli!
Molti vengono all’esistenza, ma pochi sono veramente generati, perché la generazione autenticamente umana non è un fatto puramente biologico, ma simbolico, non sta nell’ordine dei fatti, ma degli affetti.
Generare è più che produrre o riprodurre: è passare vita e amore, esistenza e senso, natura e cultura; è trasmettere “il patrimonio di un matrimonio”, passare la sostanza di un padre e di una madre, la loro tenerezza e la loro saggezza.

In questo senso, a ben vedere, il generare è inseparabile dall’educare: non si può mettere al mondo senza insegnare a stare al mondo.
Se oggi ci troviamo in uno stato di “emergenza educativa” è perché troppi bambini sono orfani, in quanto troppi genitori abdicano al compito educativo.
Dice bene Cantelmi: “nel profilo dei genitori dei nostri giorni, possiamo trovarne di affettuosi e accudenti, preoccupati per i loro figli, ma che hanno rinunciato a educare, cioè a trasmettere visioni della vita, narrazioni, assetti valoriali e di significato, riflessioni di senso”.

Più profondamente, si potrebbe dire che generare è mettere al mondo in maniera integrale: è il compito materno di introdurre nella vita e il compito paterno far entrare in società. Per questo il gesto familiare classico dell’autentica generazione è quello del padre che innalza il neonato, ancora in larga parte legato al corpo e alla psiche della madre, e dandogli il nome lo riconosce come membro di una famiglia e di una patria.

Si comprende allora che l’atto di generazione è sempre un atto di adozione: non solo accadimento di una vita, ma anche libero “sì” alla vita, atto di riconoscimento e di elezione, conferimento di un nome e promessa di un’eredità. Lo spiega bene Recalcati: “la genitorialità è sempre adottiva, non è mai naturale, ma chiede sempre il gesto dell’adozione, il riconoscimento di quella vita come mio figlio: Sì, tu sei mio figlio. Questo “sì” si fonda attraverso un atto di responsabilità: «Sì, sei mio figlio». E questo “sì” salva, dà senso alla vita, associa la vita al senso.
È una delle poche cose certe del lavoro degli psicanalisti: quando questo “sì” è mancato, quando questa adozione non è avvenuta, la vita va male, si dissocia dal senso, resta un grido nella notte, diventa disperata”. I genitori dovrebbero tutti in questo senso farsi imitatori di Dio Padre, quando in vista della incarnazione del Figlio pronuncia le solenni parole che risuonano in tutta la Scrittura: «tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» (Sal 2,7; At 13,13; Eb 1,5; Eb 5,5); o quando, all’esordio della sua missione messianica, dice con giusto orgoglio di Padre: «questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17).